Gaza la pulizia etnica di Trump
Il piano del presidente Usa piace solo a Israele. Destabilizza i paesi arabi. Viola il diritto internazionale. Nega il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese.

Il 5 febbraio 2025, durante un incontro alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha proposto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu un piano radicale per la sistemazione della Striscia di Gaza. Un territorio palestinese di 360 mila kmq, con 2,142 milioni di abitanti, sottoposto per sedici mesi ai bombardamenti e all’occupazione militare israeliana, che hanno causato la cifra sottostimata di 47 mila morti, nella maggior parte donne, anziani e bambini, con l’obiettivo dichiarato di distruggere Hamas, l’organizzazione autrice dell’attacco a sud di Israele, il 7 ottobre 2023, che ha ucciso 1200 israeliani, di cui molti civili, e rapito 240 persone, poi detenute in ostaggio.
Per la precisione, Trump ha proposto a Netanyahu che gli Stati Uniti prendano il controllo a lungo termine della Striscia di Gaza, deportando la popolazione palestinese altrove, in un pezzo di terra buono, fresco e bello, per rimuovere dall’area devastata tutte le macerie e gli ordini inesplosi al fine di edificare un polo internazionale con resort di lusso e grattacieli, una riviera del Medio Oriente. Il capo della Casa Bianca ritiene che Gaza sia ormai un simbolo di morte e distruzione e che i palestinesi non abbiano alternative all’essere deportati in un altra terra. Quel che bisogna fare è stabilizzare il Medio Oriente e trasformare Gaza in una zona di sviluppo e prosperità sotto il controllo degli Stati Uniti, considerando il potenziale business immobiliare da miliardi di dollari nella ricostruzione di Gaza. Netanyahu ha descritto il piano di Trump come "un'idea eccellente" che creerebbe "un futuro diverso per tutti". Paesi arabi, come l'Egitto e la Giordania, hanno espresso il loro dissenso. L'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) si è detta fortemente contraria "a ogni possibilità di sfollamento dei palestinesi dalla loro madre patria". Hamas ha definito il piano "ridicolo" e "assurdo". L'Unione Europea ha ribadito che la Striscia di Gaza è parte integrante di un futuro Stato palestinese.
Secondo una lettura minimizzante, Trump la spara grossa per provocare o per tattica negoziale. In tal caso, perseguirebbe i seguenti obiettivi.
Convincere Hamas ha lasciare il potere a Gaza, per accontentarsi di mantenere la sola presenza palestinese.
Indurre l’Arabia Saudita a riprendere a trattare gli accordi di Abramo, anche se Israele non concede subito lo stato palestinese, per farsi bastare la sola promessa.
Trattenere Israele dal rilanciare la guerra e farle rispettare la seconda fase del cessate il fuoco.
Realizzare sul serio lucrosi progetti di ricostruzione per tornaconto personale, poiché sia lui, sia il suo inviato in Medio Oriente, Steven Witkoff, sono grandi imprenditori immobiliari.
Tuttavia, gli effetti potrebbero essere di segno contrario. Irrigidire le posizioni arabe e palestinesi, facendole recedere dalla posizione negoziale e incoraggiare Israele a fare ciò che vuole, pregiudicando la ricca edificazione di alberghi e grattacieli.
Per quanto provocatorio, il piano fondiario di Trump per Gaza, può sembrare fondato, specie dal punto di vista israeliano. In effetti, la Striscia di Gaza è inabitabile e molti suoi abitanti potrebbero desiderare di stabilirsi altrove. Il trasferimento della popolazione palestinese potrebbe risolvere il conflitto israelo-palestinese, almeno dal lato di Gaza. La realizzazione dei due stati per due popoli, infatti, appare sempre più remota, perché la leadership di Israele la rifiuta e perché la Cisgiordania, che avrebbe dovuto essere il territorio preponderante di un futuro stato palestinese, è occupata da 800 mila coloni israeliani in espansione, il cui ritiro forzato implicherebbe la guerra civile in Israele. In proposito, si può notare che, contestualmente al suo piano, Trump ha annunciato di volersi pronunciare sull’annessione della Cisgiordania a Israele entro un mese.
Sulla carta, il conflitto tra israeliani e palestinesi, che si trascina da prima della costituzione dello Stato d’Israele ha quattro ipotetiche soluzioni.
La formazione di due stati nazionali.
La coesistenza dei due popoli in uno stato democratico binazionale.
Un regime di apartheid.
Il genocidio o la pulizia etnica di uno dei due popoli.
Dal punto di vista israeliano, i due stati per due popoli implicano la rinuncia a una parte della terra e delle risorse; lo stato democratico binazionale implica la rinuncia alla certezza del primato demografico. Quindi, finora, delegando a un vago orizzonte l’obiettivo dei due stati nazionali, Israele ha praticato il regime di apartheid. L’espressione dispiace a Israele e ai suoi simpatizzanti, perché evoca il vecchio regime razzista sudafricano. Ma la sostanza è questa: lo Stato d’Israele entro la linea verde del 1947 più i territori palestinesi conquistati, ma non annessi, tuttavia colonizzati a partire dal 1967, dopo la guerra dei sei giorni, formano un regime nel quale tutti gli israeliani, come la minoranza arabo-israeliana, sono sottoposti alla legge civile israeliana, i palestinesi occupati sono sottoposti alla legge militare israeliana. Questa situazione di segregazione, finora è costata ai palestinesi il prezzo della continua erosione delle loro risorse, insieme con la repressione militare, e agli israeliani il prezzo del terrorismo. Un prezzo diventato insopportabile il 7 ottobre 2023. Quindi, per esclusione, in ragione dei rapporti di forza completamente sbilanciati dalla parte israeliana, la soluzione del conflitto, svolta verso il genocidio o la pulizia etnica dei palestinesi.
Il piano di Trump per Gaza accompagna questa direzione. Il piano piace solo a Israele. L’idea del trasferimento volontario dei palestinesi è una vecchia idea della destra israeliana. Il ministro della Difesa israeliano Katz ha ordinato all'esercito di preparare un piano per consentire agli abitanti di Gaza di "andarsene volontariamente". Alla Knesset è in preparazione una legge che prevede un ingente aiuto economico per incoraggiare i palestinesi a lasciare Gaza con la clausola che l’eventuale ritorno implicherà la restituzione del doppio di quanto ricevuto. Il piano di Trump è stato proposto a Netanyahu, il capo di Israele, colui che ha reso inabitabile la Striscia di Gaza, devastandola, con le armi fornite dagli Stati Uniti. Lo scopo della guerra è stato, appunto, distruggere le case, le scuole, gli ospedali, le strade, gli acquedotti, le fognature, la rete elettrica, per rendere la Striscia inabitabile e indurre i palestinesi ad andarsene. Ragione per cui, Netanyahu è sottoposto a un mandato di arresto internazionale dalla Corte Penale Internazionale, per crimini di guerra e contro l’umanità. Corte ora colpita dalle sanzioni di Trump, compromettendo la possibilità di proseguire le indagini.
La mossa è coerente, perché imporre la logica dei rapporti di forza implica il demolire il diritto internazionale. Ma perché il resto del mondo dovrebbe starci? Considerando che la sfacciataggine con cui Trump ha avocato a sé il controllo della Striscia di Gaza, l’ha esibita anche per avocare il controllo del canale di Panama, il Canada e la Groenlandia. Un comportamento che legittima di fatto le pretese russe sull’Ucraina o quelle cinesi su Taiwan, di qualsiasi potenza su un paese minore. Ci conviene vivere in un mondo dove il diritto non può mettere argini alla forza, solo perché al momento ci sentiamo dalla parte del più forte?
Facciamo uno sforzo di immaginazione fantapolitica. Ipotizziamo che dopo il 7 ottobre, i leader di Hamas siano ricevuti dalla guida suprema dell’Iran, o dal presidente della Russia o di quello della Cina. E che il loro potente ospite gli proponga di prendere il controllo dello Stato d’Israele e di deportare gli israeliani in Europa o negli Stati Uniti. Immaginiamo di vivere in un mondo dove i rapporti di forza siano tali da rendere realistica una simile idea. Che effetto ci farebbe? Credo, lo stesso effetto che il piano di Trump fa agli arabi e a tutti i popoli extra-occidentali.
Il presupposto del piano filoisraeliano di Trump è che i palestinesi non siano un popolo, una nazione, ma solo una massa di arabi, integrabile in qualsiasi paese arabo. Come se una regione italiana fosse trasferibile in blocco e integrabile in qualsiasi paese europeo. In realtà, il sionismo, il nazionalismo ebraico, che ha voluto farsi stato, mediante la colonizzazione della Palestina, ha provocato, per reazione, la formazione di un nazionalismo palestinese, che vuole farsi stato anch’esso. Gaza è già una terra di profughi. Gli eredi della Nakba, i discendenti di una parte degli 800 mila palestinesi cacciati dalle terre sui cui i sionisti fondavano il loro stato, durante la prima guerra arabo-israeliana del 1948. I palestinesi hanno conservato la memoria collettiva di una storia di continui sfollamenti forzati e sono vissuti nella paura di un ulteriore e definitivo sfollamento. Perciò, è più che probabile che la generosa offerta di Trump sia da loro vissuta come una minaccia inquietante. Oggi a Gaza, domani in Cisgiordania.
Possiamo, invece, supporre che i palestinesi desiderino andarsene, e che non dovrebbero essere trattenuti a testimoniare la necessità di una causa nazionale. Se crediamo questo, per consultarli non occorre un sondaggio o un referendum, peraltro impraticabile nelle attuali condizioni della Striscia. È sufficiente che Israele apra i confini e conceda ai palestinesi libertà di movimento. Potremmo poi chiedere ai governi di Egitto, Giordania e degli altri paesi arabi, di non seguire l’esempio del comportamento americano ai confini con il Messico o di quello europeo sulle coste del Mediterraneo e di lasciare entrare nei loro paesi chi vuole entrare. Gli stessi americani ed europei potrebbero sospendere le loro politiche di chiusura e offrire rifugio e protezione all’insieme del popolo palestinese. D’altra parte, siamo stati noi europei a causare la questione ebraica, a cacciare gli ebrei verso la Palestina o a negargli il rifugio dalla persecuzione e lo sterminio, come pure fecero gli americani. Oggi, potremmo rimediare offrendo rifugio ai palestinesi. Se lo vogliono.
Diversamente, facciamo i conti con l’opposizione araba. Perché la Giordania è già per metà palestinese e l’inserimento di altri milioni di palestinesi ne altererebbe bruscamente l’equilibrio demografico e la stabilità. Perché, l’Egitto non vorrebbe accogliere i miliziani di Hamas nel Sinai, dove già il territorio, dove operano contrabbandieri e bande di beduini, sfugge al controllo dello stato. La presenza di Hamas rafforzerebbe i Fratelli musulmani ed esporrebbe l’Egitto, quindi il trattato di pace del 1979, alla guerra, qualora Israele reagisse in territorio egiziano alle incursioni terroristiche di Hamas in territorio israeliano. Soprattutto, dobbiamo fare i conti con la volontà palestinese, con la sua legittima aspirazione all’autodeterminazione nazionale.
Se oggi è inabitabile, la Striscia di Gaza era già ai limiti della vivibilità prima del 7 ottobre. Dal ritiro dei coloni israeliani nel 2005, Gaza è stata sottoposta a un rigido blocco da parte di Israele ed Egitto, in seguito alla vittoria elettorale di Hamas nel 2006. Pur avendo ritirato i suoi coloni, Israele ha mantenuto il controllo sulle frontiere terrestri, il mare e lo spazio aereo, limitando severamente lo sviluppo economico e il commercio della Striscia. Per 17 anni, Gaza è sopravvissuta solo grazie agli aiuti internazionali, con Israele che ha controllato persino le calorie pro capite in entrata, mantenendole al limite della denutrizione.
Trump immagina la realizzazione del suo piano per Gaza nel quadro degli accordi di Abramo. Nel 2020, ancora sotto il primo mandato di Trump, gli Usa mediarono un accordo di normalizzazione diplomatica tra Israele e il Bahrein e gli Emirati Arabi, con l’obiettivo di coinvolgere prossimamente l’Arabia Saudita. La logica di quegli accordi era quella di impostare l’integrazione di Israele nel mondo arabo sul piano delle relazioni economiche e commerciali. Il piano, però, aveva il difetto di ignorare la questione palestinese e di accompagnarsi alla rottura delle trattative tra Usa e Iran, avviate dalla precedente amministrazione Obama. Di conseguenza, l’Iran ha radicalizzato la sua posizione, affidandosi al cosiddetto asse della resistenza con Assad, Hezbollah e Hamas. Dal canto suo, Hamas, dopo aver tentato una strategia di resistenza pacifica e popolare, con la Grande Marcia del Ritorno, una serie di manifestazioni pacifiche tenutesi dal 30 marzo 2018 al 27 dicembre 2019 ogni venerdì nella Striscia di Gaza, vicino al confine con Israele, ha abbandonato questa posizione in seguito all'uccisione di un totale di 223 manifestanti palestinesi da parte delle forze militari israeliane, per tornare alla lotta armata, sfociata nel 7 ottobre, provocando la definitiva archiviazione degli accordi di Abramo. Ad oggi, l’Arabia Saudita dichiara di poter normalizzare i rapporti con Israele solo dopo la costituzione dello stato palestinese.
Per quanti dubbi si possano avere sulla fattibilità di uno stato palestinese, rimane questa l’ipotesi pacifica più concreta di soluzione del conflitto israelo-palestinese. Il piano di Trump si contrappone al diritto internazionale, sia di principio, con l’idea di deportare la popolazione palestinese, di prendere il controllo di Gaza senza nessuna autorizzazione da parte dell’Onu, sia di fatto con le sanzioni contro la Corte Penale Internazionale, l’abolizione dei finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (Unrwa), l’uscita statunitense dalla commissione ONU per i diritti umani. Nello specifico:
lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (ICC), considera la "deportazione o trasferimento forzato della popolazione" un crimine cotro l'umanità;
la Quarta Convenzione di Ginevra vieta il trasferimento o la deportazione forzata di massa da territori occupati;
il Codice dei crimini internazionali, prevede la reclusione da dieci a ventiquattro anni per chiunque deporta o trasferisce forzatamente più persone dall'area territoriale in cui legittimamente si trovano, mediante espulsione, o con atti di violenza o minaccia, o approfittando di condizioni di vulnerabilità, di necessità o di intimidazione derivanti dall'attacco alla popolazione civile.
Se la logica dei soli rapporti di forza, quella che anima la guerra russa in Ucraina, come la guerra israeliana di Gaza, la stessa che ispira il piano di Trump per Gaza, implica e pratica la demolizione del diritto internazionale, quest’ultimo diventa la trincea di resistenza alla forza. Dunque è al diritto internazionale che bisogna fare riferimento, per perseguire la risoluzione del conflitto israelo-palestinese e la stabilità del Medio Oriente.
Il 29 novembre 1947, l'ONU approvò la risoluzione 181, che proponeva di dividere la Palestina in due stati: uno stato ebraico e uno stato arabo-palestinese.
La risoluzione 67/19 dell'Assemblea Generale, approvata dalle Nazioni Unite il 29 novembre 2012, ha riconosciuto l'esistenza dello Stato di Palestina.
Il 4 dicembre 2024, l'Assemblea Generale dell'ONU ha votato una risoluzione che promuove una Conferenza Internazionale, il cui obiettivo è la creazione di uno Stato palestinese.
Finché le due parti non concordano una soluzione diversa, lo Stato palestinese va mantenuto come la prospettiva più valida.