Operation Rising Lion
L'attacco israeliano all’Iran è illegale e moralmente inaccettabile. Ma può bloccare il programma nucleare iraniano e far cadere il regime degli Ayatollah?
Dal 12 giugno, Israele ha lanciato un’ampia operazione militare contro l’Iran, denominata “Operation Rising Lion”. Gli attacchi hanno colpito obiettivi strategici in diverse aree del paese, inclusa la capitale Teheran. Tra i bersagli principali: siti nucleari a Natanz, Fordow e Khorramabad. In fiamme anche infrastrutture energetiche strategiche: depositi di petrolio e raffinerie. L’operazione ha decapitato i vertici militari iraniani e ucciso diversi scienziati impegnati nel programma nucleare. Ma l’azione non ha risparmiato i civili: secondo fonti iraniane, i raid hanno colpito quartieri residenziali a Teheran, provocando centinaia di morti e feriti, compresi i bambini.
L’Iran ha risposto con massicci attacchi di ritorsione. Centinaia di droni e missili balistici sono stati lanciati verso Israele, contro Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa. La maggior parte è stata intercettata dai sistemi di difesa (Iron Dome), ma alcuni hanno superato le barriere, provocando morti e feriti.
L'attacco israeliano all'Iran promuove una drammatica escalation militare nel conflitto tra i due Paesi. Possiamo valutarlo sulla base di tre domande. È legittimo? È giusto? È opportuno?
Un attacco illegittimo
Israele rivendica l’operazione come un atto di legittima difesa preventiva, poiché sostiene che l’Iran stia avanzando verso la costruzione di un’arma nucleare. La Repubblica Islamica dell’Iran non riconosce lo Stato d’Israele e fin dalla propria fondazione (1979) dichiara di volerlo eliminare. Inoltre, la Repubblica Islamica sostiene diverse milizie in conflitto con Israele. Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, gli Houthi in Yemen. A partire dall’attacco di Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre 2023, il governo israeliano, per ripristinare la sua deterrenza, vuole chiudere i conti con Hamas, le milizie sue alleate e lo stesso Iran.
Tuttavia, è il diritto internazionale, come codificato nella Carta dell’ONU e nel diritto consuetudinario, a regolare l'uso della forza tra stati, secondo principi rilevanti:
Divieto dell'uso della forza (Art. 2 (4) della Carta ONU): Gli stati devono astenersi dalla minaccia o dall'uso della forza contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di un altro stato.
Legittima difesa (Art. 51 della Carta ONU): Gli stati possono usare la forza in risposta a un "attacco armato" contro di loro, a condizione che l'azione sia necessaria e proporzionata.
Autodifesa preventiva: Non esplicitamente riconosciuta nella Carta ONU, ma invocata in alcuni casi sulla base del diritto consuetudinario (es. dottrina Caroline), richiede una minaccia imminente, grave e inevitabile.
Sovranità statale: Gli attacchi sul territorio di uno stato sovrano senza consenso o autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ONU sono generalmente illegali.
L’attacco israeliano all’Iran ha indubbiamente violato la sovranità e l’integrità della Repubblica Islamica. Senza presentare prove evidenti che l’Iran stesse per realizzare l’arma nucleare e con questa pianificare un attacco imminente contro Israele. Il possibile riarmo iraniano poteva ancora essere scongiurato per via diplomatica dai negoziati con gli Stati Uniti, che l’attacco israeliano ha interrotto. Inoltre, i bombardamenti dell’aviazione israeliana in territorio iraniano hanno causato molte vittime civili, compresa l’uccisione degli stessi scienziati nucleari, che non possono essere intesi come obiettivo militare. Nel colpire i siti nucleari, l’IDF ha rischiato la dispersione di materiale radioattivo, in contrasto con il Protocollo Aggiuntivo I della Convenzione di Ginevra (1977) che protegge l'ambiente e la popolazione civile da danni sproporzionati.
Va riconosciuto che anche la risposta iraniana, con il lancio di missili e droni contro aree urbane israeliane, costituisce una violazione del diritto internazionale, perché ha colpito obiettivi civili, provocando morti e feriti tra la popolazione. Insistere sulla conformità al diritto internazionale è un principio sostanziale di civiltà, che si fonda sull’idea che nessuno Stato, quale che sia la sua condizione, possa arrogarsi il diritto di colpire in modo preventivo, punire in modo sommario o vendicarsi a scapito di persone civili, indifese e innocenti.
Un attacco immorale
Gli stessi motivi che mettono in discussione la legittimità dell’attacco israeliano all’Iran possono essere assunti nel giudizio che ne mette in discussione la moralità. Con almeno due aggiunte.
C’è un’evidente asimmetria morale e politica: Israele è una potenza nucleare de facto, non ha firmato il Trattato di Non Proliferazione (TNP) e non è soggetta ad alcun regime di ispezioni. L’Iran, al contrario, è formalmente vincolato al TNP e le prove di un programma militare nucleare restano ambigue o insufficienti. L’operazione israeliana appare meno come un’azione difensiva e più come un atto volto a mantenere il monopolio regionale della deterrenza nucleare.
L’attacco ha provocato una grave escalation, con una controffensiva iraniana che ha colpito aree civili in Israele, aggravando il bilancio di vittime innocenti e spingendo ulteriormente la regione e forse il mondo verso l’instabilità.
Alla luce delle informazioni finora disponibili, l’attacco risulta moralmente condannabile. Anche se si volesse considerare un’estensione del principio di autodifesa, appare sproporzionato nei mezzi e pericoloso nelle conseguenze. Le perdite civili, il rischio ambientale e la destabilizzazione regionale minano la giustificazione etica dell’azione, che sembra aver rafforzato la spirale del conflitto più che averne prevenuto uno futuro.
Un attacco opportuno?
La valutazione sull’efficacia politica dell’attacco è più incerta: su questo punto si può, per ora, sospendere il giudizio. Se l’attacco israeliano si rivelasse pienamente efficace nel raggiungere i suoi obiettivi dichiarati - fermare il programma nucleare iraniano e cambiare il regime - anche i giudizi negativi sulla sua legittimità e moralità potrebbero essere attenuati. Ma gli obiettivi dichiarati non sono gli unici obiettivi.
Anzitutto, con l’attacco all’Iran, Netanyahu riesce a spostare l’attenzione internazionale dalla situazione catastrofica di Gaza e a disinnescare le (timide) critiche europee.
In secondo luogo, il governo israeliano ottiene un vantaggio immediato nel compattare il fronte interno. La maggioranza di governo è fragile, e rischia di perdere il sostegno dei partiti religiosi sulla spinosa questione dell’esenzione dal servizio militare per gli studenti delle scuole religiose — esenzione sempre più contestata, anche in seguito alla crisi morale che attraversa l’IDF, con un numero crescente di riservisti che rifiutano di prestare servizio.
Netanyahu è anche oggetto di forti critiche per aver privilegiato la prosecuzione della guerra a Gaza piuttosto che un accordo negoziato per il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas. Inoltre, è imputato in tre distinti procedimenti penali per corruzione, frode e abuso di fiducia pubblica. È anche coinvolto nel cosiddetto “Qatargate”, che riguarda due suoi stretti collaboratori, arrestati con accuse di corruzione, contatti con agenti stranieri, abuso d’ufficio e violazioni fiscali. In questo contesto, la guerra — almeno per ora — stabilizza il potere.
Sul piano internazionale, resta meno chiaro il posizionamento di Israele nel confronto tra le grandi potenze. Cina e Russia si sono espresse contro l’attacco israeliano all’Iran. Ma Putin si è anche offerto come mediatore, e Trump si è detto disponibile a sostenere questa mediazione. Gli Stati Uniti, invece, hanno mantenuto una condotta ambigua: non è chiaro se si tratti di confusione o di un consapevole doppio gioco. Frenano o incoraggiano Israele? Netanyahu sta davvero facendo, come sostengono compiaciuti alcuni commentatori nostrani di destra, il “lavoro sporco” per conto dell’Occidente?
In risposta al 7 ottobre 2023, Israele ha devastato Gaza, decapitato Hamas, indebolito Hezbollah in Libano, colpito gli Houthi in Yemen. Ha avviato molte operazioni — alcune formidabili — ma nessuna si è davvero conclusa. E nessuna appare prossima a una conclusione.
Aprire un nuovo fronte con l’Iran, lo Stato guida dei principali nemici regionali di Israele, offre una suggestione potente: che tutti i conflitti possano risolversi in uno solo. Bloccare il programma nucleare iraniano, far cadere il regime degli Ayatollah.
Ma qui emergono due problemi. Bloccare — e non solo ritardare — il programma nucleare iraniano richiederebbe la distruzione dei bunker sotterranei che ospitano i siti sensibili, con un rischio concreto di dispersione radioattiva. Israele non possiede le bombe adatte a questa operazione, le bunker-buster; solo gli Stati Uniti potrebbero fornirgliele, e finora si sono rifiutati. Un fallimento rischierebbe di sortire l’effetto opposto: non interrompere ma accelerare la corsa al nucleare.
Quanto al cambio di regime, non esiste alcun precedente positivo nelle guerre occidentali dell’ultimo quarto di secolo. Sostituire un regime autocratico con uno democratico è una speranza più che una strategia. Nulla garantisce che un eventuale nuovo potere in Iran sia migliore del precedente. Né che, dopo essere stato attaccato, un futuro Iran — qualunque ne sia l’assetto politico — accetti di rinunciare all’arma nucleare.
Ma una guerra preventiva non è mai solo un calcolo strategico: è una scommessa sulla sofferenza, l’instabilità e il futuro. E il conto, alla fine, lo pagano sempre i civili.